Silvano Codega dalla cascina Caverina a San Giuliano Milanese: da qui vogliamo iniziare la strada di “Foresta nascosta” lungo la via Emilia. Dire «dalla cascina a San Giuliano» può sembrare un paradosso, eppure in un certo senso è così: in riva alla via Emilia in certi momenti il presente sembra davvero sbucato fuori da un passato remotissimo, che si stenta a credere sia accaduto davvero. Eppure la città di oggi e quella di ieri continuano ad amarsi e a cercarsi a vicenda: la campagna si è evoluta verso la periferia, ha dovuto farlo per sopravvivere. Ma nello stesso tempo la periferia sente il bisogno, per respirare la sua stessa identità, di ricordare che è stata campagna. «Sono nato nel 1943 alla cascina Caverina, che oggi non esiste più - inizia dunque il racconto di Codega -: è stata abbattuta negli anni Sessanta per fare posto ai nuovi quartieri residenziali. Si trovava tra la via Turati e via Don Bosco all’altezza di via Vespucci. Nella foto della trebbiatura del grano in cascina, che ha scattato il mio amico Bolognesi, si vede anche il campanile: sembra di essere al centro del paese e invece eravamo in periferia. La cascina Caverina era l’ultima casa, dopo c’era solo campagna. Come si viveva a San Giuliano quando io ero ragazzo? Beh, i giochi, per esempio, ce li facevamo noi. Uno era la lippa: si tagliava il manico di una scopa (con grande disappunto delle nostre mamme...) per ricavarne un pezzo di dieci, quindici centimetri smussato ai due lati. Quando si metteva in terra lo smusso rimaneva in alto, così quando lo si percuoteva con l’altro pezzo di bastone, saltava in aria. Il gioco consisteva nel colpirlo al volo e buttarlo il più lontano possibile. Oppure le biglie: quando si giocava a “spanna»” per esempio, uno gettava una biglia - per giocare si usavano biglie di ferro, che erano meglio di quelle di vetro perché rimbalzavano meno - e l’altro doveva tirarne un’altra, cercando di colpire la biglia a terra oppure di andarle vicino. Se facevo “la spanna”, cioè se andavo talmente vicino da poter misurare la distanza con le dita della mana, vincevo due o tre biglie. Oppure - ma quello si faceva per soldi - andavamo a cercare gli stracci, le ossa e il ferro da vendere. Cinque, dieci lire al chilo. A volte invece si andava a cercare i funghi, che poi vendevamo per due soldi al padrone della cascina, che li rivendeva bene». «Nel 1963, quando la mia famiglia si è trasferita in un palazzo nuovo in via San Remo, la cascina era ormai già tutta circondata dalle case nuove. Il passaggio alla vita di appartamento per mia madre fu un trauma. Ma poi si è abituata alle comodità di un’abitazione moderna, perché in cascina usavamo un bagno in comune con le altre famiglie che ci vivevano. Quando pioveva forte, e all’epoca c’erano temporali fortissimi, pioveva anche dentro, perché sul tetto c’erano solo i coppi. La casa in via San Remo invece era un “due locali più servizi”: era la modernità che avanzava. Io all’epoca avevo già vent’anni, era il periodo del boom edilizio e dell’immigrazione dal Sud». «L’immigrazione degli anni Sessanta fu davvero, per chi la ricorda, un fenomeno velocissimo, spettacolare, destinato a rimescolare tutto. Negli ultimi anni gli extracomunitarisono arrivati poco alla volta, ma dal nostro Sud davvero arrivavano i pullman pieni ogni giorno. Sì, c’era un po’ di tensione: quando lavoravo al cinema Garibaldi, che all’epoca era praticamente l’unico divertimento e quindi era sempre pieno, mi ricordo che vedevo passare la ronda dei carabinieri con il fucile in spalla. Ho assistito a certe risse dentro e fuori dal cinema, come quelle che si vedono nei film western. In effetti, c’era un po’ di esasperazione nei confronti dei nuovi arrivati, specie se non erano ancora integrati, non avevano ancora trovato il lavoro. Eravamo tutti italiani, ma la mentalità era diversa. Io non ho mai fatto discussioni per questi motivi, anzi: mi sono fatto molti amici meridionali. Ma gli inizi sono stati duri, c’è voluta una decina di anni per amalgamarsi». E così via, di anno in anno, verso l’oggi: «Quando mi sono sposato, nel 1971, sono andato ad abitare al numero 1 di via San Remo. Poi nel 1979 ho comprato casa in via della Repubblica. All’epoca lavoravo nella ditta Pasta Cavi Speciali, che poi è diventata Pirelli. Sono andato in pensione nel 1996, dopo avervi lavorato per vent’anni. Attualmente sono un felice pensionato».«Io nella vita non mi sono mai annoiato. Ho coltivato molte passioni e le coltivo tuttora: la fotografia, i fossili, i buoni libri. Sono nato a San Giuliano e morirò a San Giuliano: qui ci sono i miei amici di una vita, quelli che avevo da piccolo e che ho ancora».Testimonianza raccolta da Giulia Evangelista e Marta CagnettiRevisione.
Fonte: Il Cittadino
Fonte: Il Cittadino
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