Una ghiacciaia, ossia un igloo contadino realizzato in mattoni, ma anche forni a cielo aperto nelle varie cascine per cuocere il pane. Una collezione di ricordi del passato, comune a tanti paesi del circondario altolodigiano, che ormai si è persa, scomparendo assieme ad una civiltà rurale che si è messa al passo con i tempi. Eppure non tutto è stato cancellato dal nuovo millennio. Certo molti forni sono stati abbattuti, ma qualcuno si è salvato, anzi è stato addirittura recuperato a Zelo. Proprio qui ha resistito alla mola del tempo l’antica ghiacciaia di viale Lombardia, sebbene in stato di abbandono, ma unica nella zona (una simile si trova a Mediglia). «Forni e ghiacciati sono beni dell’Ospedale Maggiore di Milano, su aree svendute per far posto a nuove urbanizzazioni - racconta un ex affittuario -, altre di proprietà dell’Eca. Zelo, che solo qualche decina di anni fa, aveva meno di 2mila abitanti oggi li ha quadruplicati e continua a crescere nonostante ci siano 160 appartamenti invenduti, vuoti». E la ghiacciaia, utilizzata nel 1900 per la raccolta e conservazione del ghiaccio naturale, un vero e proprio ciclo industriale durato fino alla comparsa e diffusione dei frigoriferi, è rimasta al suo posto dietro piazza Italia, in centro paese. Potremmo definirla un monumento, un antico esempio di alta tecnologia contadina, completamente ecompatibile ed efficiente che però oggi mostra i segni del tempo. Sopra ci cresce l’erba, oppure si notano lattine, bottiglie rotte e cartacce gettate da incivili. Al posto della vecchia porta di legno che chiudeva la ghiacciaia, se ne trova una in acciaio per impedire l’accesso a vandali ed evitare pericoli agli intrusi. Già perché questa costruzione dalla forma particolare, alta non più di due metri e mezzo, forse tre, scende in profondità di altrettanti metri. Una caduta potrebbe essere anche fatale. Dentro veniva stoccato il ghiaccio che si raccoglieva dai campi. «I campi, d’inverno, venivano utilizzati come vasconi - racconta il contadino -. Il primo ghiaccio si rompeva e si faceva andare sott’acqua, quindi una volta che si riformava, lo si rompeva ancora e così via fino a formare massicci lastroni che si portavano alla ghiacciaia. Una volta riempita, la si copriva con paglia di riso, perché non marciva e durava di più, fungendo da isolante». L’acqua era limpida e il ghiaccio lo si poteva anche mangiare. Si conservava per la stagione calda; ce n’era a sufficienza per portarlo in campagna ai braccianti per mantenere fresche le vivande. Poi l’utilità è venuta sempre meno, aprendo la strada ad un lento declino, che rischia di portare alla perdita di un’architettura certamente originale. Fonte: Il Cittadino
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