Tribiano, «Io dormivo. Erano forse le 6.30 del mattino quando ho sentito
arrivare dei camion. I vetri della finestra erano aperti, le persiane
chiuse per il coprifuoco. Ho visto militari in divisa che facevano
scendere un gruppetto di uomini (15 partigiani, ndr), non in fila né
ordinati, e andando verso di loro li indirizzavano verso il muro, ma
senza spingerli. All’improvviso però hanno cominciato a sparare
all’impazzata su queste persone, senza nemmeno allinearli». La
testimonianza è della signora Giuseppina Ferazza di Tribiano, classe
1928, che il 10 agosto 1944 aveva ancora 15 anni e viveva con la madre a
Milano, in via Buenos Aires 92. La loro finestra dava proprio su
piazzale Loreto del cui eccidio, ordinato dal capo nazista Theodor Emil
Saevecke, oggi la signora Giuseppina è l’ultima testimone oculare. «Uno
ha tentato di scappare, correva e io pensavo: “Se arriva dietro l’angolo
c’è la chiesa, vi ci si può rifugiare e chissà...”. Invece lui ci è
arrivato alla chiesa, ma era chiusa, lo hanno ucciso lì e riportato già
morto nel piazzale con gli altri. Io gridavo. La mamma mi ha tappato la
bocca perché nel nostro vicinato c’erano dei renitenti alla leva e
credevamo che anche quelli fossero stati uccisi». La testimonianza della
signora Ferazza è documentata anche nel video girato dagli studenti
dello Iulm nel 2010 insieme al docente e regista Marco Pozzi: un
documentario che ora l’associazione “Le radici della pace - i Quindici”,
che riunisce i familiari delle persone fucilate a piazzale Loreto il 10
agosto 1944, vorrebbe diffondere insieme ad un libro e attraverso un
sito Internet. E Giuseppina è l’ultima testimone oculare non solo perché
chi era adulto o anziano all’epoca dei fatti, ora non c’è più, ma anche
perché il 4 novembre di quello stesso anno un bombardamento su Milano
rase al suolo gli edifici attorno a piazzale Loreto. Tra i morti, anche
la mamma della signora Giuseppina e la sua migliore amica. «Sono stata
convocata al processo contro Saevecke a Torino. Gli inquirenti hanno
fatto un lavoro certosino, rintracciando tutti gli abitanti: io ero
l’unica ad aver visto; la portinaia di uno stabile in via Caretta aveva
invece soltanto sentito, ma ora è morta. Mi hanno chiesto se avessi
visto un ufficiale tedesco, ma forse era arrivato mentre ancora io
dormivo, perché avevo cominciato a sentire quando sono arrivati i camion
con i condannati, visto il plotone di esecuzione che era sicuramente
italiano, in divisa e col berretto nero», ricorda, e continua, a
proposito di quel 10 agosto: «I corpi rimasero esposti un bel po’, il
parroco della chiesa del Redentore chiese che venissero rimossi anche
perché faceva molto caldo. C’era il sangue, le mosche. Terribile. Io e
la mamma quel giorno ci siamo rifugiate da due cugine che abitavano in
viale Abruzzi». Anni dopo, quella vicenda è diventata una poesia
sofferta e lucida nella raccolta “Il qui e l’altrove”, che Genesi
Editrice ha pubblicato quando Giuseppina Ferazza è andata in pensione,
dopo essere stata maestra per generazioni di bambini di Tribiano e
Cassino d’Alberi. E ora, mentre ancora pochi conoscono la sua storia,
confida: «Non ne ho parlato mai molto perché certe cose si fa fatica
persino a portarsele dentro, le si vorrebbe esalare. Come si può fare
una rilettura coerente delle cose? Hanno una loro logica, di fatti e
antefatti, ma è una logica militare, dura, che non va bene per la gente e
i poveri cristiani. Forse serviranno cento anni. All’epoca avevo
sentimenti contrastanti perché ero stata educata a riconoscere i
militari come chi faceva mantenere la legge. In quel momento invece
avevamo capito cos’era il fascismo, cosa poteva essere. Ci si sente
madri di fronte a certe cose. Tra l’altro sul muro antistante a piazzale
Loreto c’era ancora scritto in lettere gigantesche “Ave Dux”, perché
anni prima Mussolini era venuto a Milano e raggiungendo la stazione
centrale era passato da lì. Io l’avevo visto, aveva il braccio alzato
nella macchina scoperta. Nessuno avrebbe previsto che la sua fine
sarebbe stata proprio lì. Il ricordo dell’agosto 1944 in me è ancora
puro orrore. Ma ne ho visti tanti, prima, durante e dopo. E
quell’eccidio è uno di loro».
«Una punizione spropositata contro la società milanese» - Dresano, Quando seppe come e perché Umberto Fogagnolo fosse stato
fucilato con altre quattordici persone il 10 agosto 1944 a piazzale
Loreto, il suocero fascista volle radersi ogni giorno con quello stesso
rasoio che il genero usava in carcere, il nome inciso nel dosso bianco.
«Io credo che si confrontasse con mio padre, cui era legato da profondo
affetto», afferma il figlio di Umberto, Sergio Fogagnolo, oggi residente
a Dresano, presidente Anpi di Melegnano e presidente dell’associazione
“Le radici della Pace - I Quindici”. Un’associazione costituitasi per
tutelare i famigliari delle vittime di quell’eccidio al processo - tra
1997 e 1999 - a Saevecke, capo della Gestapo a Milano nel 1944. Ma un
primo comitato di familiari era già nato dopo la scoperta a Roma dell’
“armadio della vergogna” contenente la documentazione sulle stragi
nazifasciste in Italia. «Se prima delegavo a mia madre il culto della
memoria di mio padre e lo Stato con retorica comprensibile rendeva onore
a chi aveva fatto parte della Resistenza, dal 1994 ci siamo resi conto
che quello stesso Stato aveva una seconda faccia», dichiara Sergio
Fogagnolo. «Già il 21 maggio 1946 la 78esima Special Investigation
Brench inglese aveva individuato i responsabili della strage ed elencato
18 nomi, 4 fascisti e 14 nazisti. Secondo le leggi vigenti il rapporto
equivaleva a quello della polizia giudiziaria italiana e avrebbe dovuto
esserci il processo, tanto che questa indagine è entrata negli atti del
processo Saevecke, ma più di cinquant’anni dopo. Non è questione di
riscrivere la storia. Già allora si sapeva che i responsabili avevano
chiesto una punizione largamente spropositata dopo un’azione svolta in
viale Abruzzi. E che - sottolinea Fogagnolo -, Saevecke scelse
personalmente quindici uomini che non avevano nessuna relazione con
viale Abruzzi, e li sceglie (emerge il verbo al presente, ndr) in modo
che siano rappresentativi della società milanese: il maestro di scuola
come Principato, l’impiegato come Fiorani, l’operaio come Casiraghi,
l’antifascista convinto come Esposito, l’ingegnere come mio padre».
Umberto Fogagnolo era infatti arrivato a San Vittore dal carcere di
Monza, dove era stato portato il 12 luglio: aderente al Partito
d’azione, era stato tra gli organizzatori degli scioperi del marzo 1944
nelle fabbriche di Sesto dove era responsabile del Cln, si difendevano
gli impianti industriali che la Germania voleva trasportare e convertire
in produzione bellica. Era nato a Ferrara, Umberto, come ingegnere
idraulico aveva lavorato nei cantieri di Monfalcone. «Mia mamma
raccontava che una delle prime cose che lo colpirono a Trieste fu la
vista di patrioti slavi incatenati, e la conoscenza progressiva con la
classe operaia vessata dal fascismo». E poi il ricordo di Sergio
bambino. «Avevo due anni e mezzo quando mio papà è stato ammazzato e mia
mamma ha perso il quarto figlio che aspettava. Con i miei fratelli
siamo stati nascosti nella colonia della Marelli a Lanzo d’Intelvi, dove
il parroco faceva parte della Resistenza. Poi si è scoperto che anche
le altre famiglie avevano protetto i figli in modo analogo». Laureatosi
in scienze politiche con specializzazione in storia durante i primi anni
della pensione, anche quest’anno il 10 agosto Sergio Fogagnolo è
intervenuto alle celebrazioni di piazzale Loreto e su questo numero de
“Il calendario del Popolo” è pubblicato il suo, “Il passato che non
passa”. «I morti non possono più esprimersi, ma io sì. C’è una profonda
ignoranza dovuta alla strumentalizzazione. La storia è complicata, per
questo va studiata, magari con il discorso di De Gasperi alla conferenza
di Parigi 1946. Piazzale Loreto è luogo del dolore, anche delle
famiglie di chi vi sarà portato otto mesi dopo. E il dolore è sentimento
universale. Dobbiamo cercare ciò che ci unisce».Fonte: Il Cittadino
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