martedì 28 agosto 2012

Per non dimenticare: Milano, piazzale Loreto il 10 agosto 1944. «Una strage che segnò la mia vita»

Tribiano,  «Io dormivo. Erano forse le 6.30 del mattino quando ho sentito arrivare dei camion. I vetri della finestra erano aperti, le persiane chiuse per il coprifuoco. Ho visto militari in divisa che facevano scendere un gruppetto di uomini (15 partigiani, ndr), non in fila né ordinati, e andando verso di loro li indirizzavano verso il muro, ma senza spingerli. All’improvviso però hanno cominciato a sparare all’impazzata su queste persone, senza nemmeno allinearli». La testimonianza è della signora Giuseppina Ferazza di Tribiano, classe 1928, che il 10 agosto 1944 aveva ancora 15 anni e viveva con la madre a Milano, in via Buenos Aires 92. La loro finestra dava proprio su piazzale Loreto del cui eccidio, ordinato dal capo nazista Theodor Emil Saevecke, oggi la signora Giuseppina è l’ultima testimone oculare. «Uno ha tentato di scappare, correva e io pensavo: “Se arriva dietro l’angolo c’è la chiesa, vi ci si può rifugiare e chissà...”. Invece lui ci è arrivato alla chiesa, ma era chiusa, lo hanno ucciso lì e riportato già morto nel piazzale con gli altri. Io gridavo. La mamma mi ha tappato la bocca perché nel nostro vicinato c’erano dei renitenti alla leva e credevamo che anche quelli fossero stati uccisi». La testimonianza della signora Ferazza è documentata anche nel video girato dagli studenti dello Iulm nel 2010 insieme al docente e regista Marco Pozzi: un documentario che ora l’associazione “Le radici della pace - i Quindici”, che riunisce i familiari delle persone fucilate a piazzale Loreto il 10 agosto 1944, vorrebbe diffondere insieme ad un libro e attraverso un sito Internet. E Giuseppina è l’ultima testimone oculare non solo perché chi era adulto o anziano all’epoca dei fatti, ora non c’è più, ma anche perché il 4 novembre di quello stesso anno un bombardamento su Milano rase al suolo gli edifici attorno a piazzale Loreto. Tra i morti, anche la mamma della signora Giuseppina e la sua migliore amica. «Sono stata convocata al processo contro Saevecke a Torino. Gli inquirenti hanno fatto un lavoro certosino, rintracciando tutti gli abitanti: io ero l’unica ad aver visto; la portinaia di uno stabile in via Caretta aveva invece soltanto sentito, ma ora è morta. Mi hanno chiesto se avessi visto un ufficiale tedesco, ma forse era arrivato mentre ancora io dormivo, perché avevo cominciato a sentire quando sono arrivati i camion con i condannati, visto il plotone di esecuzione che era sicuramente italiano, in divisa e col berretto nero», ricorda, e continua, a proposito di quel 10 agosto: «I corpi rimasero esposti un bel po’, il parroco della chiesa del Redentore chiese che venissero rimossi anche perché faceva molto caldo. C’era il sangue, le mosche. Terribile. Io e la mamma quel giorno ci siamo rifugiate da due cugine che abitavano in viale Abruzzi». Anni dopo, quella vicenda è diventata una poesia sofferta e lucida nella raccolta “Il qui e l’altrove”, che Genesi Editrice ha pubblicato quando Giuseppina Ferazza è andata in pensione, dopo essere stata maestra per generazioni di bambini di Tribiano e Cassino d’Alberi. E ora, mentre ancora pochi conoscono la sua storia, confida: «Non ne ho parlato mai molto perché certe cose si fa fatica persino a portarsele dentro, le si vorrebbe esalare. Come si può fare una rilettura coerente delle cose? Hanno una loro logica, di fatti e antefatti, ma è una logica militare, dura, che non va bene per la gente e i poveri cristiani. Forse serviranno cento anni. All’epoca avevo sentimenti contrastanti perché ero stata educata a riconoscere i militari come chi faceva mantenere la legge. In quel momento invece avevamo capito cos’era il fascismo, cosa poteva essere. Ci si sente madri di fronte a certe cose. Tra l’altro sul muro antistante a piazzale Loreto c’era ancora scritto in lettere gigantesche “Ave Dux”, perché anni prima Mussolini era venuto a Milano e raggiungendo la stazione centrale era passato da lì. Io l’avevo visto, aveva il braccio alzato nella macchina scoperta. Nessuno avrebbe previsto che la sua fine sarebbe stata proprio lì. Il ricordo dell’agosto 1944 in me è ancora puro orrore. Ma ne ho visti tanti, prima, durante e dopo. E quell’eccidio è uno di loro».
«Una punizione spropositata contro la società milanese» - Dresano, Quando seppe come e perché Umberto Fogagnolo fosse stato fucilato con altre quattordici persone il 10 agosto 1944 a piazzale Loreto, il suocero fascista volle radersi ogni giorno con quello stesso rasoio che il genero usava in carcere, il nome inciso nel dosso bianco. «Io credo che si confrontasse con mio padre, cui era legato da profondo affetto», afferma il figlio di Umberto, Sergio Fogagnolo, oggi residente a Dresano, presidente Anpi di Melegnano e presidente dell’associazione “Le radici della Pace - I Quindici”. Un’associazione costituitasi per tutelare i famigliari delle vittime di quell’eccidio al processo - tra 1997 e 1999 - a Saevecke, capo della Gestapo a Milano nel 1944. Ma un primo comitato di familiari era già nato dopo la scoperta a Roma dell’ “armadio della vergogna” contenente la documentazione sulle stragi nazifasciste in Italia. «Se prima delegavo a mia madre il culto della memoria di mio padre e lo Stato con retorica comprensibile rendeva onore a chi aveva fatto parte della Resistenza, dal 1994 ci siamo resi conto che quello stesso Stato aveva una seconda faccia», dichiara Sergio Fogagnolo. «Già il 21 maggio 1946 la 78esima Special Investigation Brench inglese aveva individuato i responsabili della strage ed elencato 18 nomi, 4 fascisti e 14 nazisti. Secondo le leggi vigenti il rapporto equivaleva a quello della polizia giudiziaria italiana e avrebbe dovuto esserci il processo, tanto che questa indagine è entrata negli atti del processo Saevecke, ma più di cinquant’anni dopo. Non è questione di riscrivere la storia. Già allora si sapeva che i responsabili avevano chiesto una punizione largamente spropositata dopo un’azione svolta in viale Abruzzi. E che - sottolinea Fogagnolo -, Saevecke scelse personalmente quindici uomini che non avevano nessuna relazione con viale Abruzzi, e li sceglie (emerge il verbo al presente, ndr) in modo che siano rappresentativi della società milanese: il maestro di scuola come Principato, l’impiegato come Fiorani, l’operaio come Casiraghi, l’antifascista convinto come Esposito, l’ingegnere come mio padre». Umberto Fogagnolo era infatti arrivato a San Vittore dal carcere di Monza, dove era stato portato il 12 luglio: aderente al Partito d’azione, era stato tra gli organizzatori degli scioperi del marzo 1944 nelle fabbriche di Sesto dove era responsabile del Cln, si difendevano gli impianti industriali che la Germania voleva trasportare e convertire in produzione bellica. Era nato a Ferrara, Umberto, come ingegnere idraulico aveva lavorato nei cantieri di Monfalcone. «Mia mamma raccontava che una delle prime cose che lo colpirono a Trieste fu la vista di patrioti slavi incatenati, e la conoscenza progressiva con la classe operaia vessata dal fascismo». E poi il ricordo di Sergio bambino. «Avevo due anni e mezzo quando mio papà è stato ammazzato e mia mamma ha perso il quarto figlio che aspettava. Con i miei fratelli siamo stati nascosti nella colonia della Marelli a Lanzo d’Intelvi, dove il parroco faceva parte della Resistenza. Poi si è scoperto che anche le altre famiglie avevano protetto i figli in modo analogo». Laureatosi in scienze politiche con specializzazione in storia durante i primi anni della pensione, anche quest’anno il 10 agosto Sergio Fogagnolo è intervenuto alle celebrazioni di piazzale Loreto e su questo numero de “Il calendario del Popolo” è pubblicato il suo, “Il passato che non passa”. «I morti non possono più esprimersi, ma io sì. C’è una profonda ignoranza dovuta alla strumentalizzazione. La storia è complicata, per questo va studiata, magari con il discorso di De Gasperi alla conferenza di Parigi 1946. Piazzale Loreto è luogo del dolore, anche delle famiglie di chi vi sarà portato otto mesi dopo. E il dolore è sentimento universale. Dobbiamo cercare ciò che ci unisce».Fonte: Il Cittadino

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