venerdì 10 agosto 2012

Insalata, fagioli, miglio e quinoa il cibo sostenibile aiuta il pianeta

 

Studio congiunto Fao/Bioversity: promuovere alimentazione sostenibile e biodiversità dei prodotti è fondamentale per migliorare la salute umana e quella della Terra di Sara Ficocelli

ROMA - Frumento, granturco, orzo, avena, segale, sorgo, miglio, panico. Di cereali ce ne sono tanti, ma il 60 per cento del consumo mondiale ruota intorno a tre prodotti soli: mais, grano e riso. La maggior parte dell'apporto energetico vegetale che fa parte della nostra alimentazione deriva dunque dalla medesima fonte, e questo non solo fa male alla salute (perché la mancanza di varietà riduce l'apporto nutritivo e indebolisce il metabolismo) ma danneggia il pianeta, sacrificando aree vastissime con piantagioni a coltivazione intensiva. L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura, meglio conosciuta come Fao, da anni cerca di sensibilizzare le istituzioni ad un uso più sostenibile e sano delle risorse alimentari. La definizione univoca di dieta sostenibile è una conquista del 2010, coniata durante il simposio internazionale sulla biodiversità e la sostenibilità delle diete: "Le diete sostenibili sono diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale nonché a una vita sana per le generazioni presenti e future. Concorrono alla protezione e al rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, sono accettabili culturalmente, economicamente eque e accessibili, adeguate, sicure e sane sotto il profilo nutrizionale e, contemporaneamente, ottimizzano le risorse naturali e umane". Una definizione che ha dato il là alla stesura di un libro, Diete sostenibili e Biodiversità 1, edito da Fao e Bioversity International. Il testo, appena pubblicato, rappresenta un punto di riferimento importante per le ricerche di settore e detta le linee guida per la diffusione di un'alimentazione sostenibile, in grado di non danneggiare il pianeta. "Nonostante i notevoli passi avanti fatti dall'agricoltura negli ultimi tre decenni, è chiaro a tutti che i sistemi alimentari e le diete continuano a non essere sostenibili", scrive nella prefazione Barbara Burlingame, della divisione Nutrizione e protezione del consumatore della Fao. Al mondo, spiega l'esperta, le persone che soffrono la fame sono 900 milioni, ma sono molte di più le persone in sovrappeso, due miliardi delle quali soffrono di carenza di micronutrienti come vitamina A, ferro, o iodio. E questo perché i meccanismi che regolano l'alimentazione seguono sempre più il criterio della quantità che quello della qualità. "La velocità con cui si sta perdendo la biodiversità e si degradano gli ecosistemi - spiega la Burlingame - con tutti i problemi per la salute umana connessi, rende urgente la questione della qualità dei sistemi agricoli e alimentari".Le diete povere dal punto di vista della varietà sono strettamente legate all'aumento di malattie non trasmissibili come il diabete e le affezioni cardiovascolari. L'industrializzazione agricola e i trasporti su lunghe distanze, inoltre, hanno trasformato i carboidrati raffinati e i grassi in prodotti economici e di largo consumo, disponibili in tutto il mondo. La dieta che oggi la maggior parte del mondo moderno segue è ricca di carne, prodotti caseari, grassi e zuccheri. Ma produrre una fettina di manzo ha un impatto ambientale molto più alto che coltivare una zucchina e dunque il regime alimentare che tutti - anche noi fortunati popoli della dieta mediterranea - seguiamo ha una pesante impronta ecologica in termini di carbonio e consumo di risorse idriche. E si impoverisce giorno dopo giorno in nutrienti, sapori, diversità, tradizione gastronomica e culturale locale. Il libro sostiene inoltre che le diete e i metodi di produzione alimentare moderni riducono drammaticamente la diversità genetica vegetale e animale. Su 47.677 specie valutate dall'Unione internazionale per la conservazione della natura, 17.291 sono state definite a rischio di estinzione."Dobbiamo cambiare il paradigma della produzione agricola - spiega Emile Frison, direttore generale di Bioversity International - e andare oltre le coltivazioni principali, guardando alle centinaia e migliaia di specie vegetali e animali "neglette e inutilizzate" che fanno la differenza tra una dieta sostenibile e una che non lo è".In Kenya, Bioversity ha aiutato a reintegrare nelle diete e nei mercati locali ortaggi a foglia verde, prima considerati cibo per i poveri. Piante come il solanum nigrum africano, il fagiolo dell'occhio, le foglie di zucca, la basella alba (o "spinacio del Malabar"), il clorofito (o pianta ragno), hanno fatto aumentare la domanda sia nel consumo domestico che sul mercato, e questo nuovo circuito economico è stato di grande aiuto ai piccoli coltivatori.In India sono stati recentemente reintrodotti cereali tradizionali come la setaria italica (una specie di miglio coltivata in tutto l'Oriente) e l'Eleusine coracana o miglio indiano, prima abbandonati a causa di politiche governative che sponsorizzavano la coltivazione della cassava come farina per uso domestico. Nei Paesi latinoamericani (e non solo) si sta promuovendo un ritorno a prodotti nativi delle Ande come la quinoa, "il seme d'oro degli Incas", e all'amaranto. E il 2013 sarà l'Anno internazionale della quinoa. Pensare che esista un'unica dieta sostenibile, però, è sbagliato. Ogni Paese ha la sua, basata sui prodotti locali e su un autentico concetto di "km zero". "La parola d'ordine - conclude Sandro Dernini del Forum delle culture alimentari del Mediterraneo - è frugalità. Dobbiamo promuovere delle coltivazioni legate al territorio, scegliere il cibo stagionale, favorire il più possibile la biodiversità. Solo così ci salveremo da malattie croniche cardiovascolari e dal sovrappeso". E, soprattutto, così salveremo il pianeta. Fonte: La Repubblica.it

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